Le sfide della Supply Chain oggi: la gestione del rischio
MIP Politecnico di Milano School of Management – 18 settembre 2006
“Le supply chain oggi sono sempre più esposte a rischi di vario genere”: così il Prof. Jim Rice del Center for Transportation and Logistics del MIT di Boston ha aperto il suo intervento al convegno organizzato da MIP Politecnico di Milano [al quale ho partecipato]. Infatti la globalizzazione ha fatto sì che sia i clienti sia i fornitori oggi siano sparsi per il mondo, il che implica maggiori distanze, attraversamento di frontiere, necessità di intermediari e operatori di vario tipo. Inoltre l’outsourcing ha reso le supply chain sempre più complesse, in quanto ha aumentato il numero di aziende coinvolte nella realizzazione e distribuzione di un prodotto. Infine, gli sforzi verso la riduzione delle scorte hanno reso le filiere più fragili, in quanto sempre più dipendenti da un corretto e puntuale funzionamento dell’intera catena. La cosa forse meno evidente, e per questo più preoccupante, è che oggi il rischio per un’azienda si può nascondere anche molto lontano: un imprevisto che colpisce un lontano subfornitore, una trasportatore o anche il distributore finale si possono trasformare in gravi perdite per tutti gli attori coinvolti nella supply chain.
Chiaramente i rischi più forti sono quelli che comportano gravi conseguenze, come un disastro naturale (si pensi all’uragano Katrina, allo Tsunami, ai terremoti), un attacco terroristico (l’11 settembre, Madrid, Londra, …), ma anche eventi “normali” come scioperi, blackout, scandali finanziari, aziende che falliscono, fino alle reazioni dei consumatori a minacce di epidemie, anche solo presunte, quali la mucca pazza e l’influenza aviaria. Ciascuno di questi eventi viene normalmente considerato come unico o molto raro, impossibile da prevedere, e quindi spesso siamo rassegnati a subirne le conseguenze senza poter far nulla. Il Prof. Rice ha fatto notare però che l’elenco degli eventi è talmente fitto che non è corretto definirli “eccezionali”: ogni anno si verificano numerosi “imprevisti” con gravi conseguenze sull’operatività delle supply chain. Se si osservano tali conseguenze, ci si accorge che, nonostante l’eterogeneità delle cause, gli effetti sono riconducibili a poche categorie (failure modes): interruzione dei trasporti e delle comunicazione, inagibilità delle struttura produttive, blocco delle forniture, riduzione della domanda, perdita di persone.
Fortunatamente il messaggio del Prof. Rice non si ferma qui: i rischi sono probabilmente maggiori rispetto a quanto siamo comunemente portati a pensare, ma è anche possibile fare qualcosa per proteggersi. In particolare vi sono due linee di azione complementari: da un lato cercare di ridurre la propria esposizione al rischio attraverso quella che Rice chiama Security (per dirla in termini medici, cercare un vaccino), dall’altro mitigare le conseguenze di un eventuale evento dannoso aumentando la Resilience, ovvero la capacità di reagire e ripristinare il normale funzionamento della supply chain (quindi una migliore cura). Proprio su quest’ultimo punto si concentra la seconda parte dell’intervento, per mostrare come alcune aziende, che in passato avevano subito gravi conseguenze a causa di eventi imprevisti, si siano attrezzate per mitigare le conseguenze di eventi futuri, e questo abbia in effetti permesso loro di reagire molto meglio quando tali eventi si sono realmente verificati.
Il primo strumento è la creazione di team e strutture aziendali dedicate al Business Continuity Planning, come fa ad esempio Intel, al fine di prevedere i possibili failure modes e pianificare una risposta. A questo si aggiunge il ripensamento della rete di clienti, fornitori e partner, al fine di aumentare la resilience attraverso la ridondanza (duplicazione di risorse) oppure con la flessibilità (intercambiabilità delle risorse, modularizzazione dei prodotti, standardizzazione dei processi, possibilità di trasporti alternativi). Infine, un elemento fondamentale è imparare dal passato, evitando di ripetere gli stessi errori (come purtroppo spesso succede). A questo scopo è fondamentale la formazione e l’addestramento a tutti i livelli, affinché la resilience diventi parte della cultura aziendale.
Fra i tanti esempi citati, Rice ricorda l’incendio avvenuto nel 2000 in uno stabilimento Philips dove si producevano componenti per telefoni cellulari utilizzati da Nokia e Ericsson. Nokia si accorse subito che, nonostante l’incendio fosse durato soltanto 10 minuti, lo stabilimento non sarebbe stato in grado di riprendere la produzione per parecchio tempo, facendo immediatamente pressione su Philips perché garantisse l’approvvigionamento da altri stabilimenti, adattando il proprio processo produttivo, e rivolgendosi anche ad altri fornitori, permettendo così di non rallentare la produzione di telefoni. Ericsson al contrario si accorse in ritardo del problema e non fu in grado di porvi rimedio, ritardando così la propria produzione e perdendo quote di mercato.
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