Non è advertising e non è storytelling. Il branded content è una nuova forma di comunicazione.
Nell’ultimo anno si è affacciata anche in Italia un’innovativa forma di comunicazione, corporate e di prodotto, che va sotto il nome di Branded Content. Di cosa si tratta?
Vanno sotto l’etichetta di Branded Content tutti quei contenuti editoriali originali premium, costruiti ad hoc sui temi e i valori di un brand, direttamente prodotti e distribuiti dall’advertiser. Si tratta ad esempio di cortometraggi, documentari, webseries, docu-stories, quindi contenuti per lo più audiovisivi, distribuiti soprattutto su tv, internet e ogni device mobile in grado di supportarli, di durate tra 1 e 90 minuti, e spesso di natura seriale.
Facciamo qualche esempio per chiarire meglio la natura di questo fenomeno: i cortometraggi The hire prodotti da BMW nel 2001 (che si considerano la prima vera case history), ma anche quelli prodotti successivamente da Pirelli e in epoca più recente da Louis Vuitton sul tema del viaggio, o da Banca Intesa San Paolo nell’operazione Per fiducia; gli speciali televisivi “powered by” Nike in tutta Europa e dedicati ai propri testimonial calcistici; il progetto multimediale (documentario+website+mostre fotografiche) “6 Billion others”, con 5000 interviste in 70 Paesi sui grandi temi della vita, promosso da BNP Paribas a sostegno del multiculturalismo e del rispetto della Diversità; la divertente webseries USA Easy to assemble ambientata nei punti vendita Ikea, piuttosto che la serie di documentari The Business of Innovation, “in association with” IBM, in onda su CNBC e History Channel, con ogni puntata dedicata ad un partner-cliente (quindi anche in una valenza B2B), che posiziona IBM come l’innovatore degli innovatori.
In tutti questi esempi si nota che l’azienda incentra un contenuto editoriale vero e proprio, autonomo, sui propri Brand Values (la Fiducia e l’Ottimismo, il rispetto della Diversità, l’Innovazione…) o sulla notorietà e l’appeal dei propri testimonial, con finalità pubblicitarie esplicite ma indirette, cioè dichiarando correttamente all’audience il proprio apporto, decisivo o totale al finanziamento del contenuto stesso, ma senza farne oggetto di un imbonimento (come in una televendita o in una telepromozione) o di un invito all’acquisto. L’azienda non si limita più ad interrompere contenuti editoriali altrui (come nello spot televisivo, vampirizzando l’attenzione del telespettatore del programma), a mimetizzarsi implicitamente e scorrettamente in essi (come nell’advertorial, nel redazionale), a piazzare in un film o in una fiction marchi o pack di prodotto (come nel product placement), o a sponsorizzare un ambito di entertainment per cercare di assimilarne l’appeal sul pubblico (come nel billboard televisivo o nella sponsorship sportiva e culturale), ma produce e distribuisce un contenuto proprio, una Intellectual Property di cui detiene i diritti di sfruttamento su tutte le piattaforme in cui decide di comunicare, e che sarà direttamente associata ad esso, in modo esclusivo. Un contenuto di tale valore che il pubblico sia stimolato a cercarlo in modalità pull, invece che subirlo in modalità push (un benchmark storico in questo senso è la guida Michelin, che, nata per suggerire all’automobilista deviazioni ai propri itinerari che valesse la pena compiere, è diventata non solo un successo editoriale ma “la” guida gastronomica per antonomasia, per autorevolezza e credibilità).
Tutte le altre forme appena citate rientrano nella famiglia allargata del Branded Entertainment, in cui un brand si sposa ad un ambito tematico, scelto per differenziarlo dai competitors: ad esempio la musica per Heineken, il calcio per Nike, il design per Campari, ma gli esempi potrebbero essere molti altri. Nel Branded Content, che è la forma più avanzata di Branded Entertainment, questo legame si rafforza e diventa meno pretestuoso, più stretto e più efficace, soprattutto quando il racconto che si sceglie di rappresentare è effettivamente legato all’essenza di quel marchio, coerente con la sua storia di comunicazione e con il vissuto del consumatore.
Per produrre e distribuire i propri contenuti editoriali, l’azienda ha a disposizione due strategie, a volte alternative, a volte complementari: può scegliere un Media Partner coerente, in grado di assicurare già in partenza un contesto credibile e autorevole e una certa copertura garantita di audience a quei racconti, e che può assumere anche lo statuto di vero e proprio co-produttore, oppure può scegliere di comunicarli e distribuirli da solo, ad esempio sul proprio sito, sui siti di video sharing e sui social networks, limitandosi eventualmente ad acquistare una pianificazione coerente di tabellare di sostegno, per invitare i consumatori a fruire di quel contenuto.
Naturalmente tutta la comunicazione moderna, anche quella pubblicitaria, cerca di raccontare storie, e di vendere storie in cui identificarsi o proiettarsi, per vendere il brand che ne è il protagonista. Ma lo spot si dimostra sempre più inadatto a costruire da solo questo potenziale di storytelling archetipico, per molti fattori: per l’affollamento e nell’intrusività che caratterizzano le sue pianificazioni, perché le logiche quantitative di pressione sono sempre meno efficaci, per l’incapacità dei media classici di attrarre tutti i pubblici, e perchè strutturalmente, per la sua brevità, il trenta secondi lavora sulla suggestione, sul’evocazione di un mondo, ma non riesce a spiegarlo, a raccontarlo, a convincere il target che quel mondo è effettivamente parte di sé, a costruire una vera connessione emozionale. Una recente ricerca inglese IPSOS Media CT, presentata nell’ultima edizione del MipTv di Cannes come “Content Monitor”, ha invece misurato l’impatto di alcune iniziative di Branded Content, quantificando in particolare gli incrementi in termini di Recall, Brand Consideration, Emotional Connection e Purchase Consideration rispetto ai non esposti, dimostrando come siano riuscite a lavorare sia sulla dimensione affettiva che su quella cognitiva di una marca, colpendo sia la dimensione adulta che quella infantile del target, affascinando e legandosi ad un mondo di intrattenimento, ma soprattutto narrativizzando e argomentando quei temi e quei valori che la tabellare può solo limitarsi ad evocare. E’ anche così che un brand con una rilevante portata simbolica, o che aspira a costruirsene una, può ambire a diventare un “lovemark”, un prodotto che si vive sia con amore che con rispetto.
In Italia assistiamo ad una fase ancora iniziale di questo nuovo tool di comunicazione, in cui spesso il contenuto è più che altro una semplice estensione, in termini di durata, della campagna tabellare: vedi ad esempio la sketch-com Crodino A un pelo dalla Victoria, prima live su Facebook e poi filler di Fox Life, con gli stessi testimonial dello spot, o il cortometraggio Coco Mademoiselle, in cui Keira Knightley si limita a sedurre il suo fotografo per 3 minuti e venti secondi anziché per i trenta dello spot tv, riuscendo a costruire un’attesa di ancor maggiore efficacia. In altri casi si è ricercata la viralità nella comicità, come nella serie di sketch-com da 2’ Panetteria Maiello in cui Luca e Paolo fungono da improbabili commessi nel portale di Vodafone Lab, o nell’arzilla vecchietta protagonista de Gli sgami della nonna, su casa.it, ma la sensazione è che il legame con il brand sia pretestuoso, e che ad esempio la nonna cannibalizzi il ricordo del portale immobiliare, dato lo scarso link. In altre operazioni si rappresenta il mondo del prodotto, come in Havana Film Project, in cui Havana Club porta Enrico Silvestrin e giovani filmmakers su Deejay tv, per rappresentare in cortometraggi le atmosfere di Cuba; oppure si rappresenta il mondo dei consumatori, come nel Divano Football club su Sky Sport, in cui Birra Moretti anima i pomeriggi calcistici di un gruppo di tifosi capitanati da Ugo Dighero, o come nei “magalog” (un po’ catalogo di prodotto, un po’ magazine) di Ikea Family Live, ora anche audiovisivi, in cui si contestualizzano gli arredi di Ikea nelle storie delle famiglie che li vivono. Ma le operazioni più interessanti si sono viste finora in contesti inusuali: al cinema (dove Perugina si appresta a coprodurre il sequel di Lezioni di cioccolata, con Luca Argentero, ambientata nella scuola di cioccolato della propria sede), o alla Triennale di Milano, nella mostra che Borsalino ha incentrato sul cappello nel cinema (e in pratica ai propri product placement e a propri “branded content” ante litteram).
Le aziende che ad oggi maggiormente hanno puntato su questo strumento in Italia sono la già citata Banca Intesa San Paolo e Pasta Garofalo. La prima ha scelto il cinema come veicolo strategico di una serie di operazioni, non solo di immagine, in grado di sottolineare il concetto di Fiducia e ottimismo, dedicando la prima edizione, nel 2008, a tre corti d’autore firmati Salvatores, Sorrentino e Olmi, la seconda a giovani filmmakers di cui i primi sono stati mentori, la terza ad un concorso narrativo sul web, “per raccontare le forze vitali e positive che animano il nostro paese”. Il pastificio di Gragnano invece, ha da sempre scelto di non comunicare con spot ma con il cinema, prima limitandosi al product placement, e negli ultimi 3 anni producendo cortometraggi: L’alchimia del gusto con Alessandro Preziosi, Questione di gusto di Pappi Corsicato, Armandino e il madre di Valeria Golino, e soprattutto, nel maggio scorso, The wholly family, firmato dal genio visionario di Terry Gilliam, in grado di dare alla città di Napoli e al valore della tradizione una veste tutt’altro che scontata e banale.
Le Relazioni Pubbliche, tradizionali e digitali, avranno un ruolo decisivo nel valorizzare e decuplicare l’efficacia delle iniziative di Branded Content, perchè sono in grado di estendere i benefici di immagine del contenuto promosso, anche rispetto al pubblico più allargato che non è stato direttamente esposto al contenuto stesso, ma solo alla comunicazione che su quel contenuto viene fatta, sia sui mezzi classici ma soprattutto sui social networks.
Certamente l’Italia non ha ancora prodotto iniziative mature e di portata compiuta, quali quelle internazionali prima citate, o casi clamorosi come quello di Red Bull (che ha da sempre prodotto o distribuito contenuti sugli sport estremi e sui valori di avventura e rottura degli schemi, e che ha finito per diventare addirittura un vero e proprio editore, con la Red Bull Media House, che produce canali via cavo, web tv, riviste e addirittura un’etichetta musicale).
La sfida comune è quindi quella di riuscire a costruire e comunicare insieme, agenzie di branded content (che più delle agenzie di adv classico o delle case di produzione sono in grado di sposare le esigenze dei brand e dei contesti editoriali in cui si situano) e agenzie di pr e digital pr, contenuti di qualità, coerenti e rilevanti di per sé, in grado di amplificare il beneficio di immagine per l’azienda.
di Alessandra Alessandri, dal sito FERPI.
Complimenti a lei per l'analisi eccellente.
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