Nunc et in hora mortis nostrae. Parole buone per finire, non per cominciare. (Perciò il Gattopardo le usò per cominciare). Ci sono due circostanze, nella chiusa dell’Ave Maria. Il tempo della morte - adesso e nell’ora - che verrà quando verrà e sarà diverso per ciascuno di noi. E il modo: della “nostra” morte. Non credo che la “nostra morte” voglia dire la morte che aspetta tutti gli umani, tutti i mortali appunto. Vuole dire che anche il modo sarà diverso per ciascuno, come il tempo, e che a ciascuno apparterrà una propria morte, o ciascuno le apparterrà. La nostra morte: la tua, la sua, la mia. Se avesse voluto parlare della fine che tutti ci aspetta avrebbe detto: Nunc et in hora mortis. Dice nostrae perché pro nobis peccatoribus, è altra per ognuno di noi peccatori. Forse vuol dire anche che, una volta venuti al mondo, si vive, più o meno, con gli altri, ma quando si muore si muore soli. Facemmo tanto per assicurarci il privilegio - non dirò il diritto, si esagera col linguaggio giuridico - di una morte nostra, a modo nostro. Di non essere falciati all’ingrosso, nel mucchio della guerra, dell’epidemia, del terremoto. Di prepararci da lontano all’ora e al modo, immaginando chi convocare al nostro capezzale, su che cosa posare l’ultimo sguardo, perfino con quali pensieri accomiatarci. Le “ultime parole” diventarono un edificante genere letterario e psicologico, per accertare che nel momento estremo il morente avesse confermato o rivelato la propria natura più profonda: e non importa che per lo più si trattasse di ultime parole inventate, e che prendessero solennemente il posto di feci e sangue, rantoli e farneticazioni. Si moriva: si occupava uno spazio breve e decente fra vita e morte, il trapasso e il suo padroneggiamento, lo spegnersi di una candela. E adesso?
Fortunata, fortunatissima la nostra vita sazia e lunga, nel nostro pezzo di mondo. Ma sempre più spesso ci aspetta una terra di nessuno, il rovescio dell’augurio di “passare dal sonno alla morte”, e invece da una giacenza incosciente che non è più vita a una morte che diventa tale solo quando venga certificata. Questa esistenza senza vita, in cui non si assomiglia più a sé, in cui ciascuno, sibi dissimilis, diventa equivalente a ogni altro, come sono equivalenti e intercambiabili le macchine che surrogano le funzioni vitali, questo intervallo fra vita e morte che non consente più commiato, né ultime parole, né ultime volontà: è già la sorte di centinaia di migliaia. Chissà quale superstizione, o quale oltranzismo, vuole vedere nel cosìddetto testamento biologico il sotterfugio dell’eutanasia o del suicidio assistito o di qualche delitto a piacere. La condizione cui la tecnica può consegnarci, di quell’esistenza protratta senza vita e senza speranza ragionevole di ritorno, invita a una previdenza. Si è preso in prestito il nome che da sempre designa la previdenza nei confronti della fine, fare testamento, disporre per tempo e ordinatamente dei propri beni, prima che sia tardi. Il testamento biologico vuol autorizzare a disporre del destino del proprio corpo, prima che sia troppo tardi. Del proprio “corpo morto”, e però depositato in una giacenza arbitraria. Questo vuole sventare il testamento biologico: che si faccia durare artificialmente il proprio corpo morto, senza poterlo restituire a una vita, senza risolversi a recapitarlo alla morte. In questo accanimento caricaturale della proprietà privata finiamo espropriati dell’ora e del modo mortis nostrae: affari degli appaltatori (religiosi e politici prima ancora che medici) di quel limbo terapeutico. Sul cui fondo riprende una seduzione il suicidio, che ti illude di ridiventare titolare della tua morte, ora e modo - ma solo alla condizione di spogliarti della tua vita. La “nostra morte” era invece, o voleva essere, il complemento della “nostra vita”.
Il testamento biologico non è un argomento facile. Ma che sia consentito a ciascuno di noi (consentito a chi voglia: non imposto a tutti) di rifiutare per sé l’intervallo - a volte di molti anni, orribile a dirsi e vedersi, per chi non lo scelga - che può oggi separare la morte dalla sua certificazione, come si può negare? Non avremo la vanità di allestire la scena della nostra dipartita, e tanto meno di provare allo specchio le nostre ultime parole. Ma lasciateci negoziare in pace con la nostra morte. Amen.
Di Adriano Sofri, da La Repubblica di Giovedì 21 Giugno 2007
25 giugno 2007
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